“Babylon” è arrivato al momento giusto

Babylon

Si alzano le luci, si leva un applauso. Non sono al termine di uno spettacolo teatrale in cui pubblico ed attori si ricongiungono: fine della finzione, ritorno alla realtà e grazie per quanto visto.

Il film è finito, e mentre applaudo in piedi fra la gente senza sentirmi in imbarazzo, mi rendo conto del tempo trascorso dall’ultima volta in cui ho provato tale sensazione, come inebriato da una folgore della cui mancanza avevo fatto un’abitudine.

Lo svuotamento dei cinema è un fenomeno conclamato ed attuale. L’insostenibile onerosità dei biglietti hanno gettato il cittadino nella condizione di doverne fare a meno, unito oltremodo alla decadente qualità media delle produzioni cinematografiche, denotando discutibili produzioni e scelte di proiezione poco coraggiose.

La sensibilità collettiva sembra essersi abbassata a tal punto che, in momenti come questi, la mediocrità generale assume effetto celebrativo nei confronti di quei prodotti audiovisivi che, per meriti reali o presunti tali, riescono in qualche modo a spiccare fra gli altri.

Il rischio di una valutazione simile c’è, con conseguente difficoltà nel restare oggettivi nella propria soggettività.

Perchè Babylon?

Chazelle, classe ‘85, non è nuovo alla realizzazione di opere dalla comprovata maturità artistica. Prima con Whiplash (2014) poi con La La Land (2016), il regista statunitense realizza con questa pellicola il compimento della cosiddetta “trilogia inversa”, partendo dalla contemporaneità delle ambizioni, passando dal delicato equilibrio tra vita ed arte fino a giungere alle radici del movimento cinematografico.

La più recente fatica si presenta come un variopinto carnevale di immagini, dove lussuria e gola dominano il contesto hollywoodiano dei ruggenti anni ‘20, inserendosi come uno spaccato dell’epoca talmente inconcepibile da non poterci apparire che veritiero.

Attraverso 15 anni di lavoro, Chazelle crea una struttura dove narrazione e musica si legano indissolubilmente creando un connubio sensoriale tale da trasportare lo spettatore all’interno della scena.

Justin Hurwitz, compositore dell’intera trilogia, mette in scena una “Babilonia musicale” capace di elettrizzare sin dalle prime note di “Welcome”, trasportandoci nel corso del film attraverso gli incessanti ritmi di “King of the circus” ma soprattutto “Coke Room”, dove gambe e piedi vengono animati dalle melodie stesse tanto da provocare in sala un lieve tremolio, tipico prodromo alla danza più efferata.

La storia di Manny Torres (Diego Calva) e Nellie LaRoy (Margot Robbie) ricalca in maniera pedissequa alcuni aspetti già visti in La La Land, consolidando l’impostazione del romanzo di formazione e consolidando la capacità di strutturare personaggi “veritieri” per pregi e per difetti, ambiziosi e fallibili. Attraverso rovesci della medaglia che toccano qualsiasi costrutto sociale del tempo, la presenza di sottotrame non fa’ che evidenziare le complesse sfumature della realtà americana di inizio anni ‘30, portando sullo schermo fluidità nella narrazione senza incentrarsi su una singola vicenda.

Magnificenza e grottesco si mescolano e si dividono senza sosta concatenandosi una scena dietro l’altra, favorendo il più curioso disorientamento nello spettatore seguendo l’unica regola dominatrice dell’intero film: stupire.

Ambizione

Non c’è da meravigliarsi del gusto agrodolce, la volontà non è piacere ma sconvolgere, dando una scossa allo staticismo dell’oggi, rimuovendo ogni forma di patinata banalità che ci circonda.

Il linguaggio adottato è esso stesso motivo di spaesamento, con contrasti altisonanti fra linguaggio aulico e turpiloquio, arricchendo le scene senza apparire fuori contesto.

Babylon è aria gelida di fine Gennaio, insinuata dalle finestre aperte su salotti insalubri, necessaria quanto aspettata. L’auspicio che si porta appresso è legato alla speranza di una nuova stagione cinematografica, necessaria per uscire dalle sabbie mobili nelle quali ci troviamo, vedendo in Babylon la cima alla quale aggrapparsi. Nel segno dell’ambizione.

“Io vorrei fare parte di qualcosa di più grande. Qualcosa che duri, che abbia un significato.”

Manny Torres