Fra circa un mese si concluderà il mio sesto anno lavorativo. L’anniversario cade in quel periodo dell’anno in cui si è soliti soffermarsi a fare un bilancio degli eventi degli ultimi 12 mesi; troverete ampliato il raggio temporale attraverso cui racconterò quello che rimane di questi primi anni, considerando questa come la fine di una tortuosa gavetta.
E così ha inizio
La gavetta è un processo attraverso il quale è possibile raggiungere una certa posizione di prestigio partendo da una condizione umile e di basso grado, facendo le proprie fortune iniziando dagli strati più bassi che avvolgono un determinato mestiere.
Questo concetto può essere considerato veritiero se preso ed analizzato come enunciato in quanto tale; al di fuori della definizione, le varie sfaccettature delle realtà lavorative tendono a trasformare il processo in un puro e subdolo strumento coercitivo nei confronti delle nuove leve.
E’ prassi comune che questo percorso avvenga sotto tali luci?
La risposta è sì. Ciò che realmente fa da spartiacque tra un normale e un alterato processo di gavetta non si limita alla mera condizione etico-sociale all’interno di un luogo di lavoro, quanto alle casistiche di età dei nuovi arrivati, elemento di analisi ancor prima delle tangibili competenze che la persona possiede.
Per trasmettere al meglio il messaggio basterà immaginare un giovane ventiduenne, col proprio bagaglio di studi, desideroso di introdursi nel mondo del lavoro per dare prova tangibile delle proprie capacità.
Il pregiudizio tipico italiano sta nel considerare il giovane come emblema di un’incapacità che esula da qualsiasi competenza posseduta: i segni fenotipici tipicamente giovanili divengono condizione sufficiente per valutare una persona.
Da qua inizia ad instaurarsi una forma di comunicazione caratterizzata da un comportamento passivo-aggressivo da parte dei senior, i quali non esitano a trasmettere messaggi di benvenuto di tipo intimidatorio, denigranti e supponenti.
Ecco il benvenuto dal mondo del lavoro, luogo dove le variabili sociali appaiono in forma di montagne invalicabili rispetto alle difficoltà standard che si ritrovano nel tentativo di imparare un mestiere.
In qualche modo il messaggio che traspare è semplice quanto anacronistico: essere giovani è una colpa da scontare.
Cresciuti a pane e disuguaglianza
Ci tengo a specificare come queste vicende coinvolgano maggiormente i ragazzi/e neolavoratori. L’età ha un peso specifico che contrasta apertamente la possibilità di affermarsi in determinati contesti lavorativi, in senso sia orizzontale che verticale. Esiste una gerarchia che mira a stratificare un insieme di lavoratori, questa struttura piramidale è governata da pochi elementi che sfruttano la propria senilità per imporsi sulle nuove leve. Un’oligarchia a tutti gli effetti.
Questa formula di violenza psicologica (vincente verso tutti i soggetti mentalmente più fragili) unito al bigottismo di chi vive opponendosi ad ogni forma di innovazione professionale, alimenta solo il disagio di chi avrebbe voluto un ambiente dove valorizzarsi, finendo invece per disilludersi nel corso del tempo.
Le motivazioni dietro a questi comportamenti non risultano chiare. Per quanto visto, nonostante il grande impegno messo in campo associato ad atteggiamenti propizi alla crescita professionale, assieme a numerose proposte di miglioramento, la percezione è quella di non essere i benvenuti, come se fossimo estranei in casa d’altri.
La frustrazione che muove certi comportamenti non sta a me giudicarla, allo stesso tempo è sufficiente per comprendere quanto contribuisca a rendere malsano un determinato ambiente, disdegnando i benefici che potrebbe portare un po’ di “aria fresca”.
L’opposizione di talune persone alla crescita professionale, assieme al fatto che questo venga permesso e mai ostacolato da chi ne avrebbe il potere, rappresenta la morte sociale del lavoro, il miglior modo per incrinare le poche certezze dei giovani lavoratori creando anche presupposti di sfiducia personale.
E guardando a queste personalità, tronfie dei propri anni di esperienza e al tempo stesso vuote di ogni aspetto etico-morale, è normale chiedersi se convenga lottare per la causa (in questo caso inteso come il luogo di lavoro) o guardarsi attorno in cerca di meglio, alla ricerca del locus dove valorizzare al meglio sé stessi.
Dinosauri
Sminuendo il valore dell’empatia si è giunti al solo risultato possibile: abbiamo perso ogni tipo di speranza nei confronti della convivenza tra vecchio e nuovo. Consapevoli del nostro valore e del fatto di non essere nati per subire, ci arrendiamo all’evidenza che da questa situazione non otterremo mai nulla di buono. Non abbiamo intenzione di vivere nel Giurassico.
Riguardando il percorso svolto, capisco che la gavetta di cui parlo è finita, in verità, da tempo; ad essa si è sostituita la voglia di migliorarsi e aggiornarsi, continuando quel percorso (infinito) di crescita professionale.
Le difficoltà degli anni hanno contribuito nell’accrescere la consapevolezza del significato della parola “lavoratore”, distinguendo il “saper fare” dal “saper essere”, elementi nebulosi nella testa di quel ventiduenne appena uscito dall’Università, nitidi e definiti alla soglia dei trent’anni.
E questo non cambierà mai.
“Mi dispiace, ma io so’ io, e voi non siete un cazzo.”
Il marchese del Grillo
Commenti
Bello…bellissimo e purtroppo reale!
Largo ai giovani
Nel paese dove molti hanno cercato il posto fisso per adagiarsi il prima possibile nella vantaggiosa routine del minimo sforzo possibile, l’arrivo dei “novellini” volenterosi e motivati può creare irritazione fino alla vera e propria paura di doversi rimettere in gioco e rivedere il proprio fare. Il risultato è il blocco ancora più rigido in una posizione di cui si abusa e nell’utilizzo dell’utilizzo del termine “esperienza” come alibi per sminuire chi, molto probabilmente, può con umiltà insegnare a sua volta. Tanto più auspicabile quando si tratta di professioni in cui l’ascolto dell’altro è fondamentale.
Come scrivi, la risposta è la voglia di crescere che non deve diminuire mai.
I giovani arricchiscono l’ambiente di lavoro, hanno idee innovative, sono entusiasti e volenterosi, sono aggiornati per quanto riguarda le conoscenze teoriche.
Io non sono più tanto giovane ma cerco di rimanerlo nell’ atteggiamento e nel continuo desiderio di migliorare e di imparare.
Penso che il nonnismo sia un atteggiamento non professionale e non etico.