Siamo ciò che mangiamo

Quando si parla di tiramisù, l’aria all’interno delle mura di casa si fa elettrica, in un misto di eccitazione e trepidazione in qualche modo di uguale intensità solo a quella di un exit poll.

Questo accade perché il suddetto dolce al cucchiaio rappresenta da decenni elemento di unione familiare, non solo per la pedissequa e maniacale liturgia dei preparativi e della realizzazione, ma soprattutto per il condiviso tripudio di colesterolo una volta servito a tavola.

Sulle quantità e proporzioni degli ingredienti non ci soffermeremo, questo per non correre il rischio di divagare inutilmente su argomenti di relativa importanza data l’assenza di una “legge del Tiramisù”, ogni famiglia segue un filone differente su qualsiasi parte che lo riguarda (detto ciò è giusto precisare che, sebbene sia accetto anche il filone dei savoiardi, questa pantomima democratica è dettata da semplice e pura compassione).

La chiave di volta per la riuscita di questo puro trionfo di gola può essere ricondotta ad un solo ingrediente: le semplicissime ma fondamentali uova; perché nonostante la serie di elementi necessari, questi piccoli ovali riescono a differenziare, con la loro qualità e il loro trattamento, un ottimo da un pessimo tiramisù. Per questo motivo la scelta delle uova diviene fondamentale, un solo ingrediente che porta (intrinsecamente) con sè quanto di “buono” riusciremo ad ottenere.

Se la ricerca di un risultato eccelso, sia visivo che gustativo, risulta altresì importante, è lecito chiedersi: questa persecutio non rischia di diventare un paraocchi per tutto quello che gira intorno alle uova stesse?

Facilito con un esempio: recarsi al supermercato e fermarsi davanti allo scaffale in cerca del prodotto migliore, crea un contesto dove qualità e convenienza divengono conditio sine qua non a discapito della provenienza?

Caro vecchio pollaio

Nel consueto atto di scegliere un alimento, è abitudine guardare sempre a quello che sarà, a come potrà tornare utile, in che modo potrà essere utilizzato. Se provate a guardare un uovo, il pensiero volerà sempre al futuro utilizzo che ne potrete fare, che sia per una omelette o una frittura; guardando al passato le domande cambiano sia per forma che per contenuto: come starà vivendo la gallina che ha prodotto questo uovo? In quali condizioni passerà le giornate questo animale? Avrà un recinto dove camminare libera o sarà segregata e sfruttata col solo scopo di farle produrre più uova possibili?*

Samsara (2011)

Se ci fermassimo ad analizzare il funzionamento degli allevamenti intensivi, non basterebbe un singolo articolo per descriverlo a pieno. Questo sistema, oramai applicato su scala mondiale da circa l’80% degli allevamenti totali, favorisce la produzione di carne a costi contenuti in modo da massimizzarne i profitti, per renderla accessibile a livello massivo in quasi tutto il globo terrestre.

Le conseguenze dirette degli allevamenti intensivi si ritrovano nella produzione di grandi quantità di rifiuti tali da rendere difficile il loro smaltimento, inquinando suolo, aria e falde acquifere; la stessa salute umana ne risente direttamente in termini di qualità di carne ingerita.

Oltre agli aspetti ambientali e sanitari, la componente morale fa da vero terreno di scontro tra sostenitori degli allevamenti e ambientalisti, i quali spingono per il benessere degli animali sostenendo una libertà dalla malnutrizione, dal ridotto spazio vitale, dal dolore e dalla paura.

Fonte: Animalequality Italia

Etica e cucina

Il concetto etico che sta dietro a questo pensiero spinge ad applicarlo a contesti di cucina elitaria: uno chef di caratura mondiale, alle prese con l’organizzazione degli ingredienti per le portate, si fermerà mai a pensare alle condizioni di vita del bovino dal quale proviene il latte necessario per la sua creme brulèe?

E se lo fa, quali meccanismi ha adottato per venir meno al senso di colpa (qualora si presenti) derivato dallo sfruttamento di questi animali?

Se questo senso di colpa non si presentasse, quali meccanismi di difesa avrà messo in atto questa persona per non pensarci?

Pensiamo alle aragoste: queste vengono mantenute all’interno di vasche dei ristoranti, stipate una sull’altra con le chele legate, in modo da evitare che possano uccidersi a vicenda. Per mantenere inalterato il gusto, le aragoste vengono tenute all’interno delle vasche sino all’ultimo secondo e poi immerse vive nell’acqua bollente, all’interno della quale impiegheranno dai 35 ai 45 secondi per morire; in questo lasso di tempo, l’aragosta si dimena nella pentola, cercando di uscire facendo stridere le chele contro i bordi (quello che erroneamente viene chiamato “l’urlo dell’aragosta”).

Come si comporta in questi casi uno chef come Bottura, Locatelli o Cannavacciuolo? Rimangono a guardare in attesa che il rumore cessi, oppure escono dalla stanza così da evitare l’insorgenza di un eventuale dissidio interiore?

Gordon Ramsey non sembra abbia timori nel cuocere viva un’aragosta. Se notate bene, prima di immergerla, il noto chef taglia verticalmente la testa del crostaceo, come atto caritatevole di morte neurologica prima procedere alla cottura. Peccato che l’aragosta non possiede come gli umani un cervello, ma detiene una serie di centri neurologici atti alla trasmissione del dolore lungo tutto il carapace.

Essere umani

Queste domande aiutano ad interrogarsi su questioni etiche legate al cibo, non per decretare cosa sia giusto o sbagliato, ma per capire se l’argomento non possa essere ridotto ad una mera questione di papille gustative; è davvero così riduttivo il concetto di arte culinaria?

Nel suo significato più sublime, l’arte è espressione estetica dell’interiorità e dell’animo umano. Se presa ed applicata al cibo, è impossibile renderla tale e veritiera snaturando ciò che la contraddistingue, ovvero eliminando da essa l’ingrediente aggiuntivo, la componente empatica.

Se questo continuasse ad accadere, avremo solo prodotti definiti da una serie di meccaniche azioni, ognuna delle quali volte solo al risultato, senza considerazioni morali di cui tener conto.

Si tratta di etica culinaria, aspetto che ci definisce e valorizza: essere umani.

*Per non rischiare di incappare in un’ipotetica deriva vegana, ci tengo a sottolineare come il mio essere onnivoro creda ancora nell’adeguato consumo di proteine animali. Molti di questi asceti dai derivati animali sostengono l’immoralità di detenere anche una minima quantità di polli all’interno di un recinto; per quel che vale, credo che una gallina avrà sempre una vita più che dignitosa all’interno di pollaio rispetto ad una vita allo stato brado, dato il suo status all’interno della catena alimentare, dovendo essere in qualche modo preservata. Non me ne voglia la lobby delle faine.

Commenti

  1. Francesca

    Alla domanda: “Quali meccanismi di difesa avrà messo in atto quella persona per non pensarci?” hai risposto da solo nell’ultima parte dell’articolo.
    Considerare necessario alla sopravvivenza il consumo di proteine animali, nonostante ormai vi siano numerosi studi che affermano il contrario, solo per pulirsi la coscienza una volta che ci si alza da tavola.

    1. Autore
      del Post
      Fuoricorso

      E’ chiaramente possibile sopravvivere senza proteine animali, l’articolo non si espone contro tale idea.
      Il mio pensiero si sofferma su un adeguato consumo di carne, unito a riflessioni di carattere etico, ben distanti da ogni forma di estremismo.
      Esattamente l’opposto dal pulirsi la coscienza.

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