Francesca Covani Frigieri – “Oltre il ruolo”

Il vento di fine autunno suole calare dalle montagne appenniniche per raggiungere l’Arno a fondovalle, portando con sé il primo freddo ed avvolgendo la periferia fiorentina fino a piazza Ubaldino Peruzzi di Antella, un sobborgo poco distante dal capoluogo stesso. Francesca è seduta al chiuso dell’unico, ma eccelso, bar del paese, osservando i passanti alle prese con sciarpe svolazzanti fra il nugolo di foglie irrequiete che popolano l’aria novembrina.

Ripensando al principio dei suoi anni, tutto è cambiato: cresciuta con un forte senso di attaccamento alla madre, sviluppò presto quel senso di maternità destinato a crescere e mutare nel corso degli anni fino alla scelta di Medicina col desiderio di approdare nel mondo della Pediatria. La realtà delle esperienze vissute si rivelò ben presto diversa dalle sue aspettative; ritrovandosi fra le incertezze che la fine dell’Università pone in tema di essere e divenire, fu la divina discesa di un anestesista, fra gli inferi del tirocinio in Pronto Soccorso che stava affrontando, ad illuminare la sua strada.

Gli anni della specializzazione furono un prodromo alle difficoltà incontrate sulla strada verso il ruolo di responsabile della Terapia Intensiva dell’Ospedale di Ponte a Niccheri, sublimandola come esempio attuale e moderno di emancipazione femminile all’interno dell’ambito sanitario italiano, storicamente pervaso da forti declinazioni maschiliste.

Abnegazione e professionalità sono le uniche scelte di chi non può che affidarsi alle proprie qualità. Il sacrificio premia il lavoratore, nella piena consapevolezza della responsabilità nel ricoprire questo ruolo che, spesso, porta a non guardare più orari, sé stessi, la famiglia, privandosi di molti aspetti circa la vita privata.

Il culmine con la pandemia da Covid-19

Mentre tiene fra le mani una tisana, racconta come durante la paralisi della “prima ondata” il suo ruolo evolse ulteriormente tanto da divenire punto di riferimento clinico e psicologico centrale all’interno del reparto, passando dai test delle tute protettive ai primi trasferimenti di pazienti contagiati, divenendo ancor più faro centrale nel periodo di buio e di incertezze del periodo.

Nessuno avrebbe mai potuto prevedere ciò che accadde.

Qua la figura di Francesca assunse duplice funzione: leader nei rapporti con la direzione e, insieme, madre nei confronti dei proprio collaboratori, perché se da una parte fu necessario stabilire dei piani di lavoro volti a fronteggiare il possibile arrivo della malattia (ricordate il periodo di psicosi cinese?), dall’altra il totale senso di smarrimento da parte dei colleghi aleggiò nella paura di una debacle totale.

Gli sguardi scambiati con gli altri responsabili di gestione della possibile emergenza, spiega, parlarono da soli; la paura fu sottotraccia del periodo, i loro occhi trapelarono il timore di non riuscire a proteggere medici ed infermieri.

Venne sovvertita ogni modalità di lavoro. Dall’esterno l’Ospedale non cambiò molto (eccezion fatta per gli striscioni di supporto nei confronti degli operatori), ma internamente fu come travolto dalla Grande Onda di Kanagawa, che portò via ogni preconcetto esistente.

Capirono immediatamente l’importanza del momento, consapevoli di entrare a far parte di un drammatico capitolo di Storia.

Rapporti umani

Ricorda molto bene la prima consulenza, il primo trasferimento, il primo paziente intubato.

Il dolceamaro del periodo si riflette nel quotidiano tragitto casa-lavoro; pur consapevole e sollevata dei benefici che il lockdown manifestò sulla sua amata natura, non mancò un giorno in cui le lacrime riempissero il viso di chi non poté permettersi di farlo a casa e, men che mai, a lavoro.

Parla di senso di dilaniamento. Dal racconto della madre, che la osservava al ritorno da lavoro dalla casa di fronte, cita: “I telegiornali non dicevano nulla, Francesca non diceva niente, ma io mia figlia la conosco e tutti i giorni arrivava con gli occhi sempre più spenti. E’ arrivata in fondo e sembrava morta lei.”

Nel tentativo di proteggere gli affetti più cari dai dolori e dalle sofferenze che vedeva e provava, ha inconsciamente ferito ambedue le parti; al senso di sconforto si contrappone la bellezza di un abbraccio mancato per settimane, l’emozione del contatto fisico, il valore che i rapporti umani assunsero in quel periodo.

“Parli al commilitone con gli sguardi, la mascherina permette solo quello. Come in guerra, quello che avviene in trincea te lo porti a casa e lo ricordi a vita. E’ così.”

Un cuore che pesa

Negli insegnamenti dell’essere medico, uno dei concetti principali che viene trasmesso riguarda l’attaccamento emotivo e quanto sia necessario creare un distacco tra il professionista e il paziente per garantire l’obiettività clinica (transfert).

Nel corso di questi due anni e mezzo, racconta, sono stati innumerevoli i casi in cui lo stato della patologia da Covid-19 ha reso necessario ed inderogabile la prosecuzione delle cure tramite approcci invasivi; questo significa intrattenere un colloquio col paziente per informarlo sulla gravità della condizione, ottenere il consenso a proseguire tramite sedazione ed applicare un tubo per farlo respirare tramite una macchina chiamata ventilatore meccanico.

Questo spartiacque viene da lei descritto come se “tutte le volte avesse dovuto ingoiare un rospo”; dentro di sé sapeva che quelle sarebbero potute essere le ultime parole pronunciate da chi le stava davanti, con la probabilità che le cure erogate non sarebbero state sufficienti a salvarli. Nonostante i progressi della Medicina, il senso di impotenza nei confronti del nuovo virus ha moralmente provato il suo essere, non potendo permettersi allo stesso tempo di lasciarlo trapelare.

Il carico sopportato, continua, ha raggiunto il limite dell’insostenibilità. Gli incontri con lo psicologo clinico, uniti all’azione catartica della corsa e, in special modo, del Passatore, hanno contribuito ad alleviare la pesantezza di un cuore sempre più grave. Lo zaino col quale ha compiuto l’impresa (100km a corsa da Firenze a Faenza) ha riportato la scritta “Per tutti i miei Covid Terapia Intensiva”, trovando così il modo di dire grazie a tutti coloro che si sono affidati a lei in quei mesi di dolore, sottolineando il valore della fiducia di tutte le persone che, guardandola negli occhi, decisero di affidare tutto ciò che avevano nelle sue mani. La loro vita.

Quello che resta

Purtroppo medico non è sinonimo di divino, molte persone sono morte davvero e il limite mostratoci dal Covid dimostra come le nostre convinzioni in campo medico possano ancora risultare ridicolmente fallaci.

La volontà è quella di farne tesoro, di tenersi stretti i sorrisi, i pianti, le parole di conforto, il significato dell’esser disponibili all’ascolto anche solo un minuto in più.

“Trovare l’arricchimento nella drammaticità, per onorarli. In qualche modo sono tutti figli e ho deciso di ricordarli così; ad ogni chilometro del Passatore il pensiero è andato a loro, ed ho pianto. E nei momenti difficoltà per la stanchezza e la disidratazione ho ritrovato le forze grazie a loro, ricordando le sofferenze che avevano affrontato ho capito che dovevo farcela. Questo è stato il mio modo di reagire.”

Lo Stato ha propinato sequenze di numeri relativi a contagi, decessi e guarigioni, ma non si è mai curato di raccontare la realtà che, per quanto dura, avrebbe potuto aiutare la popolazione a comprendere quello che i sanitari vivevano quotidianamente non solo sulla pelle, ma anche sulla proprio mente. Forse questo avrebbe potuto evitare che la marea negazionista avanzasse su così larga scala, ma allo stato attuale l’unica certezza rimasta verte sul fallimento dell’intero sistema informativo, avendo disincentivato ogni possibilità di condivisione psicologica.

“Quello che abbiamo vissuto è grande, non fa bene. Chi ti abitua a questo?”

Riconoscenza

Avere un ruolo, spiega, ha significato anche essere presente e avere una parola di conforto per tutti, cercando al tempo stesso di non perdere la via rischiando di far naufragare la barca chiamata “Terapia Intensiva”. La responsabilità verso chi ne ha bisogno si identifica nel senso di riconoscimento nei confronti dei colleghi che condivisero l’esperienza lavorativa del Covid; una tipologia di presenza necessaria per ogni lavoratore, anche per i responsabili come lei, ma che di fatto le fu negata. Nel costrutto sociale ospedaliero non è contemplabile che l’integrità della sua figura possa incrinarsi, coltivando l’errato concetto dell’esser umani tutti d’un pezzo e psicologicamente invulnerabili. La soluzione a questa mancanza fu innalzare uno scudo emotivo nei confronti dei propri sentimenti, del quale tuttora non riesce a liberarsi.

La mole di lavoro e la dedizione messa in campo non le ha mai dato la possibilità di pensare a quanto stava facendo, per questo rimase frastornata di gioia quando nel 2021 infermieri ed OSS della Terapia Intensiva la ringraziarono donandole una pergamena come forma di riconoscimento per il lavoro svolto nel periodo di emergenza. Quel momento di ritrovo e di riconoscenza nei suoi confronti, spiega, fu “totalmente inaspettato tanto da creare un impatto di emozioni positive”; oltre il pezzo di carta, fu colpita dal ritrovarsi con persone che con la parola “grazie” tenevano a dimostrare che quanto fatto aveva avuto un ritorno, non che fosse necessario doverle qualcosa, ma perché eccezion fatta per qualche collega nessuno degli altri medici si era dimostrato di avere cura nei suoi confronti.

Il concetto appare egoistico, Francesca mi guarda affermando che sa bene che “non si fa per avere”, ma il suo sentirsi abbandonata è dipeso dalla mancanza di pensiero nei suoi confronti, di un messaggio, di due parole confortanti, in virtù della sua immancabile disponibilità anche fuori orario di lavoro.

La mancanza di empatia dall’esterno (da parte di chi non è un sanitario) può anche essere comprensibile, ma come può questo accadere proprio “in prima linea”?

Non parla di simpatie o antipatie, ma di riconoscenza, valore essenziale all’interno di qualsiasi contesto lavorativo.

Stand-by

Il Covid ha costretto molti di noi a guardarsi allo specchio e a fare i conti con sé stessi. Questa necessità ha fatto da solco tra un prima e un dopo, portando a galla le necessità più intrinseche che teniamo a nascondere, come la volontà di cambiare lavoro, di divorziare, di imparare un’arte ecc… Avere a che fare con la morte di persone senza distinzione di sesso, età, patologie, etnia e ceto sociale, porta a rivalutare la nostra stessa vita, i nostri valori e le nostre volontà; chi ha vissuto sulla propria pelle questo momento storico arriva ad un punto in cui tende a slatentizzarlo.

In molti hanno cambiato radicalmente la propria vita, qualcuno non ha più messo piede in ospedale. Francesca stessa ha deciso di fare i conti con sé stessa e di rilanciarsi per diventare istruttrice di spinning.

“Per sentirsi viva dopo la morte. Perché qua siamo morti tutti.”

Con uno sguardo verso la piazza, confessa che certe volte non riesce più a vedere il mondo circostante come lo vedeva prima. Le montagne, le colline, il mare, la stessa piazza Ubaldino Peruzzi che conosce da una vita, adesso la vede diversa. Altre volte non guarda, per paura di vedere.

Le chiedo come sta. Si sente in stand-by, ne’ bene ne’ male, collocata in una zona grigia di apatia, percepibile sia a casa che a lavoro. Forse ne ha viste troppe, forse servirà solo del tempo.