Qatar 2022, il campionato Mondiale di calcio in corso, è il primo torneo disputato in Medio Oriente e nel mondo arabo. Sin dal principio è apparso concettualmente così distante da non curarsene molto; se tirato in mezzo ad un discorso, l’unica riflessione stimolata riguardava il normale decorso dei campionati nazionali, alterandosi inevitabilmente dato lo svolgimento dell’evento a cavallo tra autunno ed inverno boreale.
Ora che ci siamo dentro, la nube di diritti negati e gli atteggiamenti messi in pratica da vari fronti in gioco è riuscita ad oscurare la ragione per cui questo evento esiste e viene celebrato in ogni parte del globo.
La bellezza del gioco del calcio.
Discriminazioni
Di recente Joseph Blatter, ex presidente della FIFA, ha dichiarato che assegnare il mondiale al Qatar è stato un errore; probabilmente al tempo (ndr. 2010) non avrebbe mai pensato alla travolgente onda di sensibilizzazione verso i diritti LGBTQ+ che negli anni ha preso sempre più campo e che avrebbe brillato in un contesto integralista come quello qatariota, dove girare per strada con un indumento arcobaleno può portare al fermo da parte delle forze dell’ordine.
Sebbene sia insensato ed ipocrita giudicare metodi e usanze legate alla cultura dello Stato ospitante, resta necessario discernere l’elemento culturale dalle evidenti violazioni dei diritti umani e civili messi in atto in terra straniera.
La repressione attuata nei confronti della comunità LGBTQ+ evidenzia come la legge del luogo vieti di fatto a tali persone di “esistere”, di non poter essere loro stesse: lo ha di fatto dichiarato l’ambasciatore della Coppa del Mondo in Qatar Khalid Salman, definendo l’omosessualità un “danno psichico”.
Se l’intolleranza religiosa che governa (politicamente e spiritualmente) questi Stati non ci è nuova, la sua applicazione in merito ad un evento sportivo globale colpisce in modo significativo osservando i meticolosi mezzi tecnologici attraverso cui il Qatar individua ogni forma di “devianza” (solo a Doha sono presenti 15 000 telecamere a riconoscimento facciale per sorvegliare ogni singola persona presente all’evento).
Le autorità locali sono disposte ad evitare torture fisiche agli omosessuali individuati, in cambio del loro aiuto nell’identificare gli altri “deviati”. Questa strategia del terrore ha fatto sì che molti gay qatarioti non si conoscano fra loro.
Questione di fascia
Le narrazioni proposte hanno creato i presupposti per campagne di solidarietà nei confronti della comunità LGBTQ+ da tutto il mondo; fa ancora discutere la scelta da parte della FIFA di bloccare la decisione dei capitani di sette Nazionali europee – Inghilterra, Olanda, Galles, Belgio, Svizzera, Germania, Danimarca – di indossare la fascia con scritto “One Love” optando per la più anonima “No Discrimination“, pena l’ammonizione diretta nei confronti del giocatore dal minuto 1′.
A seguito di queste dichiarazioni, viene da chiedersi sotto quale giogo la FIFA si trovi per poter dichiarare e attuare una modifica del regolamento che governa il gioco del calcio (perché di questo si parla) con la disinvoltura stessa attraverso cui il suo attuale presidente Gianni Infantino si presenta in conferenza stampa, utilizzando parole inconfondibili che denotano la totale mancanza di determinati valori etici e convinzioni nei suddetti personaggi.
Il Qatar ha dimostrato come etica e diritti civili siano solo concetti astratti e facilmente dominabili in un sistema mosso da soldi e potere; se la FIFA ha posto l’asticella di prezzo, il Qatar ha mostrato a tutto il mondo di poter comprare l’intero sistema organizzativo.
Esisto, quindi protesto
Se da una parte la mancata insistenza delle sette Nazionali al blocco della fascia “One Love” ha destato l’incredulità generale (la pena dell’ammonizione pre-partita, per quanto ignobile possa essere il gesto della FIFA, era un rischio assumibile per il significato simbolico che la protesta portava con sé), storia diversa è quella che avvolge la Nazionale dell’Iran.
La protesta nei confronti della violenza attuata dal regime in patria, esplosa a seguito dell’uccisione della 22enne Masha Amini, ha portato gli undici titolari dell’Iran a manifestare il proprio dissenso non cantando l’inno nazionale alla partita inaugurale contro l’Inghilterra (una delle sette Nazionali sopra citate).
Per comprendere il significato intrinseco del gesto è plausibile ricollegare lo stesso alla protesta di Tommie Smith e John Carlos, atleti neri statunitensi, i quali alzarono il pugno chiuso guantato in nero ed ascoltando l’inno nazionale con il capo chinato, durante la premiazione per il primo e il terzo posto nei 200 metri piani alle Olimpiadi di Messico 1968, come forma di protesta contro il razzismo e in risalto delle lotte di potere nero.

Appartenenza
I due episodi, con più di cinquant’anni di distanza e con motivazioni ben diverse fra loro, sono legate da un filo comune che va ben oltre il tempo e lo spazio. Lottare per i diritti civili e umani prevarica ogni connotazione etnica e sociale, esponendo chiunque a possibili conseguenze che vanno ben oltre ad una sanzione disciplinare. Smith e Carlos furono sospesi dall’attività agonistica, subirono ritorsioni e numerose minacce ed impiegarono più di trent’anni prima di potersi “redimere” e ricevere gli oneri che spettavano loro, ma non si sono mai pentiti di quanto fatto.
Proprio come i due atleti statunitensi, la decisione dei calciatori iraniani di assumere una posizione netta nei confronti delle discriminazioni in atto verso la loro gente si è trasformata nel silenzio assordante che, dalla penisola araba, ha rimbombato per chilometri attraversando i televisori di tutto il mondo. Consci del fatto che tale gesto esporrà non solo loro stessi a probabili ritorsioni, ma anche familiari ed amici residenti in patria, è facile dedurre come il coraggio di questa scelta si deve alla consapevolezza di ciò che è giusto e necessario, al di là delle intimidazioni e delle politiche di terrore messe in atto non solo in patria ma anche sul suolo che li ospita.
Boycott Qatar 2022
Il coraggio messo in campo da questi atleti va ben oltre qualsiasi risultato sportivo raggiunto. Se, da una parte, risulta deplorevole che tale manifestazione si svolga in uno Stato che utilizza la magnificenza architettonica come velo di Maya nei confronti dei diritti umani negati (The Guardian stima che più di 6500 lavoratori migranti siano deceduti nella costruzione delle infrastrutture necessarie a Qatar 2022, in un sistema di simil schiavitù denunciato da Amnesty International), è importante ricordare come il campionato del mondo di calcio rappresenti pur sempre una vetrina di attenzione globale.
Boicottare Qatar 2022 dovrebbe essere inteso come atto sovversivo interno e non come disinteresse verso l’evento stesso; se anche considerassimo la componente sportiva come centro catalizzatore della nostra attenzione (come di fatto è, tanto da rimanere pur sempre affascinante nella sua atipicità stagionale), mai come in questo caso la moltitudine di fattori concomitanti che solitamente accompagnano un tale evento divengono centrali al pari del gioco del calcio.
Il Mondiale porta con sé un complesso sistema di aspetti che trasversalmente si sovrappongono nello stesso luogo: è compito dell’osservatore vedere al di là di un campo verde con ventidue giocatori che rincorrono un pallone, incitati da un pubblico infuocato e gioioso nell’esporre al mondo i più bizzarri costumi patriottici.
Voltarsi è pura negazione di problemi vivi, reali e tangibili. Il coraggio mostrato dagli atleti citati fa da esempio per tutti i contesti nei quali l’informazione e la conoscenza assumono ruoli propulsori per il cambiamento. Com’è possibile insegnare il valore della tolleranza e della giustizia ai nostri figli, se decidiamo di non prendere emotivamente parte a determinati processi repressivi su così larga scala?
Semplicemente, non è possibile.