Nel corso degli anni, lo sport è stato investito del ruolo di promotore della salute, tanto da ricoprire, sempre più, un ruolo centrale nella vita dei ragazzi/e.
Già nelle “Satire” di Giovenale è possibile trovare il motto, trasmesso nei secoli ed arrivato a diffondersi ampiamente fino ai giorni nostri – orandum est ut sit mens sana in corpore sano – accezione che al tempo non poteva che rifarsi a reverenza religiosa; al giorno d’oggi, dipartita la componente liturgica, è divenuto un mantra da trasmettere a chi rimane restio a comprendere come mente e corpo siano indissolubilmente legati fra loro.
Quanto detto viene ribadito sottolineando il ruolo del fisico all’interno di questo binomio, considerando l’importanza che ricopre la promozione del culto del corpo come moto verso il benessere mentale, attraverso una concezione quasi unidirezionale tale da spingere un giovane ad intraprendere un’attività sportiva non solo per passione, ma con lo scopo principale di garantire un adeguato riposo alle meningi asfissiate e consumate dagli studi.
Per coloro che raggiungono quel punto in cui la mente perde la connotazione di componente accessoria accanto al fisico, entrano in gioco complessi fattori che si legano al possesso di incredibili doti atletiche associate a puro estro donato da entità superiori; questi ultimi, per quanto fondamentali, restano vacuità quando non associate ad uno spirito ferreo e caparbio, strumento indispensabile per raggiungere il professionismo e divenire protagonista della propria disciplina.
E’ evidente come, in questi casi, il libero arbitrio giochi un ruolo fondamentale, seppur accentando il fatto che abnegazione e perseveranza non dipendano solo dall’atleta stesso, ma anche da fattori esterni e determinanti come il contesto sportivo e, prima ancora, quello familiare.
Pertanto, in che momento e in che modo la mente assume un ruolo cardine all’interno del quadro di salute mentale?
Essere atleta
L’atleta è un professionista che per lavoro espone le sue performance, solitamente al grande pubblico, al fine di ottenere risultati all’interno di competizioni ufficiali, siano questi piazzamenti, trofei e/o record.
La vita di questi superuomini e superdonne è un filo che tiene in bilico loro stessi tra gloria e fallimento, scandita da giorni dove la routine di allenamento e miglioramento può essere logorante ed incessante, come gocce d’acqua a scavare la nuda pietra.
Prendiamo come esempio Roger Federer e fermiamoci un attimo a pensare a quanti servizi, diritti e rovesci avrà tirato nella sua più che ventennale carriera. Ognuno di questi colpi, ripetuti ed allenati, è stato eseguito col solo scopo di entrare in quell’automatismo che più di tutti avvicina un essere umano ad una macchina, ma che in realtà cela dentro di sé un obiettivo ben diverso, quello di sublimare l’atleta verso un mondo che non ci appartiene.
Se lo sforzo fisico necessario al compimento di queste imprese può sembrarci difficile da concepire, la quantità di energie mentali (e qua mi riferisco non tanto a mera concentrazione, quanto alla volontà, alla resistenza e alla perseveranza verso il proprio fine, opposto a qualsiasi ostacolo presente sulla strada) è semplicemente inimmaginabile.
Riusciamo ora ad immaginare la pressione mentale e psicologica sviluppata, trovandosi ad un passo dal traguardo, nella consapevolezza che tra vincere o perdere un punto sta tutta la differenza del mondo?
Basti pensare allo stress che si sviluppa in contesti quotidiani come parlare davanti ad un pubblico, suonare di fronte ad una platea, sostenere un esame orale: mostrare se stessi, e nello specifico una nostra ”abilità”, ad altre persone crea una condizione ansiogena nella quale solo una mente allenata e tutelata può salvaguardarsi.
Difficile concepire cosa debba aver provato Federer in quei minuti.
Uno stress capace di piegare la mente più ferrea
Vincente e sconfitto, giubilo ed avvilimento, elogio e diffamazione.
In questa dura legge dello sport, tendenza dello spettatore è quella di mancare in empatia verso gli atleti, aspetto che spesso si traduce nell’assenza di sfumature riguardo al giudizio di performance sportive. L’impiego della dicotomia “fenomeno” e “perdente” è un fattore privo di senso critico, non considera i molteplici punti di vista secondo i quali un atleta deve essere valutato e, direttamente, va ad incidere con la mente del professionista incentivando quelle difficoltà legate alla gestione delle sconfitte, portando spesso l’atleta ad impiegare sempre più energie mentali nell’elaborazione degli insuccessi.

Il caso di Simone Biles durante l’ultima edizione dei Giochi Olimpici Tokio 2020 (ndr svoltasi nel 2021) è uno dei più recenti legati alla questione della salute mentale.
La ginnasta americana, sulla quale ricadeva una grande attesa in virtù dei 4 ori olimpici di Rio 2016, è incappata su un grave errore nel suo esercizio al volteggio, atterrando in modo pessimo ed ottenendo il peggior punteggio in carriera.
A seguito dell’errore, la 24enne si è ritirata dalla competizione a squadre. Smentita ben presto la speculazione di un problema fisico, la campionessa ha rivelato di soffrire di condizione particolare chiamata “twisties”, un’improvvisa sensazione di vuoto e blocco mentale che porta a smarrire l’orientamento nello spazio.
La vicenda ha portato alla luce quello che dovrebbe essere un processo di normalizzazione di un problema sempre più diffuso nel mondo dello sport. Proprio come BileS, anche la tennista Naomi Osaka, durante il Roland Garros dello stesso anno, aveva parlato apertamente dei problemi di depressione e salute mentale che la affliggevano, dichiarando apertamente di sentirti rinchiusa in uno stato di ansia generale tanto da portarla a disertare la conferenza stampa successivamente al suo ritiro dalla partita.
La situazione è stata terreno fertile per i mass media, i quali hanno attaccato direttamente la nipponica sia per il ritiro dal match che per la mancata conferenza, un atteggiamento che pochissimi mesi dopo si ripeterà nei confronti della ginnasta statunitense, sostenendo che tali gesti siano indice di mancata preparazione atletica.
Il messaggio promulgato da questi sportivi, diretto per parole ed immagini, è rivolto a tutti coloro che sono soliti dipingere gli atleti come creature perfette, magnifici nella loro bellezza e nel loro carisma, iper performanti ed esenti da qualsiasi debolezza. L’ideale collettivo brama un atleta refrattario agli stimoli esterni, integerrimo al suo dovere, attaccato al suo obiettivo con una mentalità che, per definizione, lo definisce più automa che umano.
Un tabù da sfatare
Tale ideologia figura come riflesso diretto del pensiero popolare secondo cui la salute mentale e le malattie ad esse derivate non siano sufficientemente rilevanti, portando il discorso su quel terreno sterile dove, oltre al pressappochismo col quale è solito affrontare la tematica, vince l’ipotesi secondo cui chi cova una forma di disagio interiore, in qualche modo lo darà a vedere.
Ma la mancanza di sintomi clinici evidenti non è necessariamente segno di benessere.
I casi Biles-Osaka mostrano come la persona portata al limite della sopportazione mentale possa giungere alla soglia in cui il crollo psicologico diviene inevitabile.
Quello che gli atleti hanno fatto si traduce in termini di esposizione totale, uscendo dai canoni di performance atletiche si mostrano al mondo in primis come esseri umani in quanti tali, eccezionali per doti ma pur sempre vulnerabili e fallibili.
Il coraggio mostrato supera di gran lunga quello messo in mostra per una giocata sopraffina, un colpo avventato o una figura rivoluzionaria; difficilmente chi non ha mai provato sulla propria pelle una problematica simile potrà comprendere a pieno il significato del gesto.

Il punto focale rimane la considerazione generalizzata del problema, la mancanza di empatia deriva tuttora dal pensiero che la salute mentale sia un tabù da non trattare, mentre la realtà dei fatti parla di un incessante dilagare di casi: gli studi affermano di una prevalenza di disturbi mentali comuni compresa tra il 17% e il 45% all’interno di coorti composte da atleti di élite francesi ed australiani.
Nell’articolo pubblicato da l’International Sociey of Sport Psychology viene analizzato come “concentrarsi sulla salute mentale all’interno di una cultura sportiva e negli sport a livello sub-culturale (inteso come pratica dilettantistica) possa facilitare lo sviluppo di ricerca di aiuto”. Cadesse questo tabù sarebbe possibile “fornire aiuto in caso di sviluppo di lievi problemi non patologici prima che questi si trasformino in malattie mentali”, attraverso la formazione di atleti ed allenatori.
Il processo di educazione come strumento di tutela del corpo e della mente.