Invito alla lettura di
Francesca Mannocchi, Io Khaled vendo uomini e sono innocente
Ci sono storie che non sentiamo. Storie scomode, nascoste, sorvegliate, proibite. Dentro a centri di detenzione, fra sangue e percosse, centinaia di storie non vedono la luce del sole. Esse provano a scorgere l’esterno fra spiragli e fori delle lamiere, alla ricerca di un segnale che porti loro libertà da una prigionia che il tempo sembra aver reso un’espiazione divina. Sono voci del mondo intero che urlano contro peccati non commessi, nel luogo di congiunzione di molte tratte migratorie. Racchiuse lì in condizioni disumane, quelle stesse voci possono solo attirare l’attenzione del vento che passa dagli spiragli della loro prigione, affidandogli preghiere e speranze contro un destino per alcuni versi già scritto.
Questa è la Libia, snodo centrale del sistema di tratta degli esseri umani, dove i trafficanti africani coordinano la maggioranza dei viaggi via mare verso le coste italiane. Khaled fa parte di uno degli anelli di questo percorso, un uomo reinventatosi dopo esser transitato dal fallimento della rivoluzione contro Gheddafi; vi partecipò, ma a oggi si sente sconfitto. I due governi attualmente al potere conducono il paese nel caos, dove gli stessi cittadini non vedono alternative al diffuso e predominante malaffare. Tutto viene fatto per soldi, passando sopra ad ogni diritto civile nei confronti dei migranti in fuga. Si accetta il fatto di inviare persone a morte sicura, considerando il mare come un’entità che esige la sua parte.
Non solo l’essere umano in fuga dalla disperazione, travestita e nascosta da barriere fisiche ed informative, ma anche il dramma civile e politico che si rispecchia nel sistema del traffico di uomini e donne: è davvero più semplice far finta di niente? Questa è la nuda realtà dei resti di un conflitto recente, giunta a noi attraverso le parole di Francesca Mannocchi, giornalista che da anni racconta il mutevole perpetuare delle guerre attorno al comune denominatore della crudeltà; il suo sguardo oltre il confine porta con sé un messaggio urgente verso chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire, incitando ad osservare ed ascoltare il mondo nella sua interezza, scrollandosi dalla mente il torpore anestetico del non sapere come catarsi verso un benessere palliativo.
L’invito della giornalista verte sulla duplice prospettiva che la storia di Khaled porta con sé: l’osservazione dell’essere umano come entità portatrice di un vissuto spesso difficile da comprendere, assieme alla rappresentazione nella nostra mente del contesto di origine e di transito dello stesso, trasformando un inquadramento normativo internazionale in delucidazione narrativa inserita all’interno dei punti focali della narrazione stessa.
Mannocchi non indugia nel descrivere in maniera netta e definita il contesto libico nella sua forma attuale: il punto di forza percepito gira intorno alla medesima qualità descrittiva di ambienti in apparente antitesi fra di loro. Troviamo così il protagonista intento a descrivere minuziosamente l’ambiente familiare e il rapporto con la moglie, non distante dalle pagine in cui lo stesso narra la pedissequa routine avente come perno cerntrale i centri di detenzione, all’interno dei quali i migranti rinchiusi vengono torturati, stuprati e ricattati tramite le loro famiglie.
Dicevo queste cose a Nestor, seduti nel suo laboratorio pieno di quadri e sculture, e di figurine in gesso da colorare. Discorrevamo di guerra e violenza, di repressione e libertà, di diritti umani. Cosa spinge la mente umana a immaginare, a programmare la violenza?[1].
Tutto ciò funziona e si adatta sotto puro aspetto informativo, evitando ogni connotazione moralistica e giudicante nel segno dello sviluppo di riflessioni personali sui lati oscuri del globo che sappiamo esistere, ma verso i quali ci fermiamo a pochi cenni informativi per timore di sapere nei particolari quel che vi accade all’interno. La paura inibilisce e copre ogni aspetto della nostra sfera sensoriale.
Cosa so di queste persone? Cosa di questo paese? E cosa invece del traffico di esseri umani?
Possedere un’idea pressappochista e superficiale è un vizio che sovente si annida in coloro che temono la conoscenza stessa, per i rischi di falle e crepe che tale processo porta inevitabilmente verso i preconcetti posseduti. Così l’invito di Francesca Mannocchi diviene triplice, sviluppando non solo conoscenza della storia in atto ma anche riflessione soggettiva e introspezione, verso il fenomeno stesso ma soprattutto sul personale modo di vedere, ascoltare e comprendere la realtà. Perché per quanto dolorosa, essa continuerà a ricoprire il ruolo di protagonista cardine nel processo di sviluppo di una coscienza comune.
[1] GINO STRADA, Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra, Milano, Feltrinelli, 1999, 200526, pp. 37.
Commenti
Dopo questa recensione così ben scritta, non giriamoci dall’altra parte e subito in libreria.